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SYDNEY

agosto '02
 
 
Il volo QF128 è puntuale e tocca la pista del Kingsford Smith alle 8.35 AM.
La notte non è stata delle migliori e la fretta di lasciare l’aereo ci fa quasi dimenticare di aver toccato, per la prima volta nella nostra vita, il suolo australiano. E’ un piccolo grande traguardo nella nostra breve carriera di turisti viaggiatori che andava assaporato meglio.
 
Ci dirigiamo velocemente verso l’affollato controllo doganale dove vengono esaminati con i raggi X anche i bagagli imbarcati in stiva.
Le nostre valigie entrano nello scanner, gli sguardi degli agenti australiani si fanno tesi. Ci fanno compilare e firmare un modulo dove dichiariamo di aver preparato per nostro conto i bagagli, di essere responsabili per il loro contenuto e dove autorizziamo l’autorità doganale ad effettuare una perquisizione.
 
“…”
“Hey, Rob guarda qua !”
“…”
“…assurdo..”
“…”
“…si è incredibile… non è una pistola !”
 
No. Non è una pistola.
E’ il piccolo quaderno con rilegatura metallica su cui verrà scritto il canovaccio di questo racconto.
 
Fa fresco, fuori dall’aeroporto. Un’aria quasi montana, un po’ da neve. La si assapora con gusto, dopo la sauna di Hong Kong.
 
Il tassì e ed il suo silenzioso conducente cingalese, attraversano una periferia urbana non molto attraente. Percorrendo il ‘western distributor’ si giunge presto in centro. Gli occhi incollati ai finestrini, si cerca subito di capire com’è questa città della quale così tanto e così bene si è scritto.
 
A questa prima fugace occhiata la città appare pulita ed ordinata, anche vivace ed abbastanza varia nell’architettura. Per fare un paragone e per rendere l’idea  appare come una Boston australe,  con in più le palme ed un senso di understatment tutto australiano. E non sono cose da poco.
 
Freccia-a-destra, occhiata-all’albergo, soldi-al-cingalese, preso-possesso-della-camera, soldi-al-porter(australiano)-doccia e pronti per esplorare la citta’.
 
Ho sempre avuto una fissa: vedere le cose dall’alto. Cascasse il mondo, ma se c’è un posto da dove si può vedere la città dall’alto, io ci devo andare.  E, possibilmente,  ci devo andare subito.
Non so perché è così, ma è come acquisire consapevolezza, come leggere l’indice di un libro.
 
Detto, fatto. La AMP Tower, con i suoi 300 m di altezza è fra le più alte strutture dell’emisfero meridionale e si trova ad un paio di isolati soltanto dal Four Points, l’albergo dove alloggiamo.
La salita sulla torre è piuttosto onerosa e comprende, obbligatoriamente,  un pessimo spettacolo “multimediale” sull’Australia e la sua storia.
Tuttavia il panorama che si ammira dalla capocchia di quest’ago dorato è degno delle aspettative ed è anticipatorio di ciò che potremo verificare in seguito e che rende Sydney una città speciale : la sua baia.
Sydney, contrariamente all’opinione comune, non è affatto piccola. Con quasi quattro milioni di abitanti è una vera metropoli, cuore finanziario ed industriale del paese.
Quattro milioni di individui che si affacciano su uno straordinario fiordo dall’aspetto  incontaminato :  la baia di Sydney.
Le frastagliate coste della baia, orlate da spiagge ed acque trasparenti, alternano tranquilli sobborghi residenziali ad ampie aree coperte di macchia e boschi vergini.
Quando il capitano Arthur Phillip arrivò qui nel 1788 e pensò più o meno le stesse cose che ho pensato io : questo è un bel posto e varrebbe la pena viverci, peccato, aggiunse lui, portarci ladri ed assassini.
Effettivamente, agli inizi della sua carriera di metropoli, Sydney nacque come colonia penale: un grande carcere in qui venivano trasportati i detenuti che affollavano oltre ogni limite le carceri britanniche. I disgraziati che giungevano qui non avevano la minima idea di dove si trovassero; era assai diffusa, fra i reclusi, l’opinione di trovarsi in Cina.
L’afflusso di detenuti si fermò solo nel 1840, in tempo per dichiarare Sydney “città” nel 1842.
 
La discesa dalla torre ci riconsegna ad una Sydney vibrante e piena di energie. Dopo un rapido hamburger in King’s Street, attraversiamo da parte a parte la city percorrendo un po’ a caso l’ordinato reticolo di strade che formano il centro cittadino.
L’aria frizzante ed asciutta produce un inaspettato effetto dopante, che ci permette di macinare senza fatica apparente molti chilometri.
L’aspetto delle strade e degli edifici ci ricorda nuovamente, in maniera molto intensa, Boston.
Alti grattacieli si alternano a costruzioni ottocentesche, affiancate da poderosi edifici dei primi del secolo.
Superato Martin Place, la vasta piazza che costituisce il cuore amministrativo della città, scendiamo verso i Rocks.
 
Quello dei Rocks è l’unico quartiere storico di Sydney sopravvissuto, almeno parzialmente,  alla modernizzazione.
Le sue strette vie acciottolate sono il pallido vessillo di ciò che era la Sydney di un tempo, tutta raccolta attorno al suo porto.
Il quartiere era formato da magazzini portuali, lavanderie cinesi e residenze riservate, per la maggior parte, alle classi meno abbienti.
Secondo un disegno purtroppo ricorrente nella storia recente mondo, il quartiere rischiò più volte di sparire, annientato dalla prepotenza della speculazione edilizia supportata dalla necessità falsamente inderogabile di bonificare spazi urbani degradati.
Nel primi del 1900 l’intera zona fu, infatti, acquisita dal governo del New South Wales che varò un piano di demolizioni atto a debellare, almeno nelle intenzioni pubbliche,  la peste bubbonica. Le aree interessate dalle demolizioni seguirono un disegno preciso ed, a lavori conclusi, lasciarono libero (quando si dice il caso) il perfetto corridoio per la costruzione delle rampe di accesso al futuro Harbour Bridge.
Attorno al 1960 fu invece un’associazione di cittadini a fermare il piano per la realizzazione di vaste zone commerciali con il classico contorno di svettanti grattacieli.
 
Oggi i Rocks sono un’attrazione turistica con tanto di “visitors center”. E questo, alla lunga, mette un po’ a disagio. Se, inizialmente, si è piacevolmente sorpresi dalla moltitudine di ristoranti e negozi e dalla generale vivacità del quartiere, più tardi si riflette su quanto sarebbe stato meglio se i Rocks avessero mantenuto l’atmosfera raccolta e genuina che avevano un tempo.
Per avere un’idea di cosa sarebbe il quartiere senza lo sfruttamento turistico bisogna spostarsi a Miller’s Point, in pratica la porzione dei Rocks che è stata separata dalla città dalla costruzione del ponte. Si respira tutta un’altra aria, da cittadina di provincia, con residenze un po’ dimesse abitate da gente riservata.
 
Percorrendo una scalinata piuttosto acclive guadagnamo la porzione di ponte riservata al traffico pedonale e, da qui, l’accesso al belvedere posto in cima al pilone sud-ovest.
Attraversati, con un po’ di affanno,  un serie di locali molto ben allestiti sulla storia del ponte si giunge all’angusta balconata posta sulla sommità della struttura.
 
La vista è la più bella e completa che Sydney possa regalare.
 
Se vedere il panorama di una città, dicevo prima, può essere come leggere l’indice di un libro, beh, questo è un signor indice con le lettere in oro stampate su pergamena.
Su tutto, finalmente davanti ai nostri occhi, l’icona per eccellenza di questa città australe, l’icona di una nazione : l’opera house.
 
Il bombardamento mediatico cui, ciascuno di noi, è sottoposto dalla nascita, causa, qui, un repentino cortocircuito neurale.  Perché, davvero, non mi sembra reale quello che vedo, trovarmi davanti quest’icona che, da sempre, mi è stata sparata negli occhi, e che era sempre stata un simbolo e, in quanto tale, immateriale mi crea un imbarazzo che non supererò prima della fine del viaggio.
E’ l’irreale che si fa reale e viceversa.
 
L’architetto danese Joern Utzon se ne andò dall’Australia nel 1966, triste e rassegnato.
A metà dei lavori l’opera era già costata il triplo e non piaceva a nessuno. Secondo le intenzioni di Utzon l’edificio doveva ricordare un frondoso boschetto di palme sulla riva della baia.
Tutto si può dire di questa costruzione tranne che assomigli ad un frondoso boschetto di palme sulla riva della baia.
 
Una cosa però va detta :
 
è bellissima.
 
 
Dal 1966 Utzon, un architetto pioniere dell’ingegneria, vive a Mallorca nel più completo anonimato. Non è mai più tornato in Australia e non ha mai voluto vedere conclusa la sua opera.
 
Torniamo in albergo che ormai è buio attraversando nuovamente a piedi la città da parte a parte.
Per la cena andiamo ad esplorare Darling Harbour, a poche decine di metri dal nostro hotel.
La zona, un tempo portuale ed ora completamente restaurata, è piena di ristoranti e si respira un’atmosfera giovane e dinamica. Si mangia all’aperto, grazie alle stufe svedesi e si gode del panorama notturno dello skyline cittadino.
Ci affezioniamo subito a questa zona e ceneremo sempre qui durante il nostro soggiorno a Sydney.
 
 

Il sole ed il cielo terso ci accompagnano anche il secondo giorno.
Attraversiamo ancora il centro a piedi, scegliendo un itinerario diverso ogni volta, prendendo familiarità rapidamente con la città.
Tornati a Martin Place ci spostiamo a nord-ovest.
Dopo la Sydney urbana e trafficata della giornata precedente, vogliamo goderci un po’ di verde e rilassarci nei parchi per i quali la città è famosa.
 
Il “parco” urbano di Sydney sono, per eccellenza,  i Botanical Gardens e non smentiscono la loro fama. Fondati nel 1816 dal governatore Macquarie. costituiscono un’oasi verde di eccezionale qualità.
Adagiati in una valletta digradante verso la baia, ospitano specie botaniche australi e d’oltremare oltre ad una ricca fauna, compresi molti esemplari stanziali di ibis, cockatoo e volpi volanti.
Il parco svolge, inoltre, una eccellente opera di divulgazione scientifica a beneficio dei visitatori.
Gli scenografici giardini si allungano su una penisola nella baia fino a Macquarie Point.
Se si amano le viste da cartolina, questo è un posto da non perdere; da qui si vedono, in catartico allineamento, i due simboli della città : l’Harbour Bridge e l’Opera House.
 
L’Opera House la si raggiunge in circa quindici minuti di lento passo. La vera magia di questa costruzione la si coglie per intero solo quando si è vicinissimi e si ha la possibilità di muoversi fra le sue immobili vele.
 
Di una plasticità mai sperimentata, sempre nuova, sempre diversa. L’architettura maiuscola porta con sé messaggi che vengono da lontano e questa scava in profondo. Gotica prima donna altezzosa.
 
Tuttavia, come direbbe il Da Serna, si fa in fretta a passare “dalla più alta speculazione filosofica al più basso anelito per un piatto di minestra, in totale correlazione con lo stato di vacuità del [nostro] stomaco.”
 
La fame incombe e, attraversando l’animato terminal di Circular Quay, guadagnamo rapidamente i Rocks, che saranno anche troppo turistici, ma la pancia sanno riempirtela bene.
Scegliamo un locanda bavarese. Si, bavarese. Con tanto di bandiere a losanghe biancheazzurre, Löwenbräu di importazione e bratwurst pronti sulla griglia. Anche questa è globalizzazione; ma buona. Almeno gastronomicamente.
 
La giornata è calda ed un vero piacere fisico starsene qui, al sole, sorseggiando questa pinta di birra ghiacciata.  Immobili anche mentalmente, ridotti alla sola attività di guardare chi passa sul marciapiede : people watching, direbbero qui.
Pingui e satolli ci alziamo un po’ a fatica, decisi a dedicarci ad una “dura” sessione di shopping fra i negozi, i centri commerciali e le bancarelle del periodico mercatino del quartiere.
Negozi ce n’è per tutti i gusti. Dall’austral-souvenir made in china al negozio di design ultimo grido. Fra gli altri ci sono anche alcune ottime gallerie di arte aborigena.
 
Già. Gli aborigeni. A Sydney quasi non ce ne sono. I loro antenati sono stati quasi tutti uccisi, massacrati come bestie nel giro di pochi anni.
Gli aborigeni hanno un sguardo strano, qualcuno ci vede il vuoto, io ci vedo lo sguardo triste della storia.
 
Sempre per un discorso di vacuità gastrica concludiamo la sessione di shopping con una gigantesca fetta di cheese cake in un raccolto baretto al limitare del quartiere. Va bene la dieta, ma oggi è il mio trentesimo compleanno e me lo posso concedere.
 
Il rientro sarà ancora a piedi e la cena ancora a Darling Harbour.
 

 
La giornata di oggi vogliamo dedicarla a visitare la baia.    Piove.
Ovvio.
Speranzosi che Giove Pluvio possa graziarci nel corso della mattinata, procediamo con i nostri piani.
Per risparmiare tempo saltiamo la colazione e prendiamo la metropolitana fino a Circular Quay. Piove.
In attesa del traghetto, facciamo colazione.
Piove.
Il traghetto parte, direzione Manly. In uscita dal Sydney Cove, la città appare in tutta la sua argentea scenograficità.
Piove, ma le foto sono suggestive.
Dopo circa mezz’ora attracchiamo a Manly, dirigendoci a piedi verso la Main Street.
Piove a dirotto.
Il nostro stoicismo cede il passo ad una rassegnata constatazione della realtà climatica, perciò decidiamo il rientro a Sydney.
Dopo un’altra mezz’ora di traghetto, l’imbarcazione ri-attracca a Circular Quay.
Smette di piovere e si aprono delle finestre di cielo azzurro. Ovvio.
Murphy, con le sue leggi, è come dio : c’è e ti vede.
 
Ad ogni modo ci mettiamo a gironzolare senza meta per la città, arrivando nel quartiere, un po’ bohemiéne di Darlinghurst dove pranziamo.
Rientriamo a piedi verso il cuore della city, fermandoci per un’ora abbondante presso una libreria della catena giapponese Kinokuniya, che così favorevolmente ci aveva impressionato l’anno precedente a Kuala Lumpur.
Nei giorni passati avevamo potuto apprezzare la quantità e la qualità delle librerie disseminate per il centro di Sydney ed, in particolare,  quelle della catena australiana Dymocks.
 
Il pomeriggio si trascina un po’ stancamente; con la monorotaia ci spostiamo nella zona meridionale di Darling Harbour, dove quotidianamente, in un gigantesco semi-interrato, viene allestito il rumoroso mercato di Paddy’s.
Con oltre 1600 bancarelle ospitate in spazio che definire claustrofobico è poco, questo festival del kitch a buon mercato, non fa proprio per me. Guadagno velocemente l’uscita, trascinandomi dietro una Elena un po’ imbronciata.
Attraversata una chinatown un po’ sotto le aspettative, concludiamo la giornata ai piacevoli giardini cinesi di Darling Harbour.
 
Durante la consueta cena presso la zona di Darling Harbour chiamata Cockle Bay Wharf, decidiamo di ritentare, il giorno successivo,  la sorte meteorologica ripetendo la gita a Manly.
 
 
 
 
 
E’ una giornata splendida quella che ci appare quando apriamo le tende della nostra stanza al FourPoints.
Sono davvero felice perché sapevo che il soggiorno a Sydney non sarebbe stato completo senza aver messo il naso fuori dalla città ed annusato l’aria fragrante del mare e dei pini marittimi.
 
Ripetiamo la procedura svolta il giorno prima, ritrovandoci seduti in poppa al traghetto, all’esterno, il sole intenso che ci scalda le ossa e la scia di schiuma bianca che conduce ad uno skyline da cartolina.
 
La navigazione scorre placida per quasi tutto il tragitto, consegnandoci ad una Manly che, abbigliata con il suo vestito solare, ci appare giovane e vacanziera anche se siamo in pieno inverno.
 
La cittadina ha la caratteristica di affacciarsi, con belle spiagge, sia sulle acque della baia che su quelle, più mosse, dell’oceano. Questo fatto ne fece, fin dai primi del novecento, il luogo di villeggiatura preferito dai Sydneysiders (gli abitanti di Sydney) e, prima, il luogo dove veniva osservata la quarantena dei navigatori provenienti da oltremare.
Il motivo per cui abbiamo scelto di recarci qui è dato dalla possibilità di effettuare, partendo dal centro del paese, un trekking di circa dieci chilometri lungo le sponde della baia attraverso un percorso quasi completamente svolto all’interno del Sydney Harbour National Park.
 
Camminare, ti mette in contatto diretto con la terra, un passo dopo l’altro, un metro dopo l’altro, ti consegna ad un dimensione di assoluta intimità con il territorio. Un rapporto che, essendo imprescindibilmente fisico, è straordinariamente intenso.
 
Il primo tratto del percorso, in uscita da Manly, si snoda lungo belle baie costellate di barche a vela e di eleganti residenze.
Lasciata,  dopo pochi chilometri, la parte più urbana del sentiero, si entra nel Sydney Harbour National Park.
Abbandonata la vista della baia ci si inerpica sui fianchi di un promontorio fino a sbucare su una levigata piattaforma rocciosa.
Mare blu e coste frastagliate, non si vedono praticamente case e costruzioni ad esclusione del faro sul lato opposto della baia. Approfittiamo del sole caldo e della splendida vista per consumare un pasto al sacco.
Fa caldo da stare in maglietta e siamo in pieno inverno.
Riprendiamo la marcia, che si fa ora più faticosa, verso la cima del promontorio. Si avanza attraverso una fittissima macchia alta un paio di metri che non concede divagazioni panoramiche.
Un po’ di fatica e qualche goccia di sudore, ma dalla cima il panorama è superlativo.
Ciò che, davvero, lascia stupiti è quanto tutto ciò che vediamo sia vicino al cuore pulsante e frenetico di una metropoli di quattro milioni di abitanti eppure appaia cosi armoniosamente incontaminato.
 
Lentamente si torna a scendere attraverso un bella vegetazione che spesso lascia spazio a notevoli spunti panoramici.
 
Dietro ad una curva del sentiero appare, un po’ visione,  Sydney, nella sua sostanza autentica.
Il mare blu diventa azzurro e spiaggia e poi collina verde, con case ad occhieggiare e sopra, in secondo piano, le torri, icona metropolitana. E’ davvero una città fortunata, questa.
 
Allo Spit Bridge, ponte levatoio, traguardo del nostro cammino, manca ormai poco. Le gambe cominciano ad appesantirsi, ma si prosegue nonostante un lunga deviazione, causa lavori di manutenzione del sentiero, ci costringa ad un’imprevista ed ardua arrampicata fino a raggiungere la strada asfaltata.
 
Lo Spit è abbassato e possiamo attraversarlo per raggiungere la fermata dell’autobus che ci riporterà a Manly. Poco dopo il nostro transito si solleverà : questa volta Murphy, fortunatamente, era distratto.
Sul bus combiniamo un gran casino, abbiamo solo un biglietto da 50 AU$ e l’autista è costretto a dare fondo a tutte le sue riserve auree riversandoci nel portafoglio una sonante secchiellata di monete come resto.
 
Da Manly nuovo traghetto verso Sydney dove ci attende, per una “sana” merenda ristoratrice, il ristorante bavarese dei Rocks.
Ci attardiamo seduti ai tavolini, con lo sguardo un po’ perso, fino a quando ci rendiamo conto, con po’ di saudade nel cuore, che l’indicatore del nostro tempo a Sydney segna ormai rosso.
 
Ci alziamo, le gambe di burro, e raggiungiamo il molo di fronte all’hotel Hyatt. Da qui l’Opera House, sempre lei, ce l’hai di fronte, perfetta da sembrare finta.
E’ il tramonto; struggente perché è un tramonto, struggente perché è l’ultimo. 
 
S’infiammano le vele d’arancione. Peccato architetto Utzon, che tu non voglia tornare, è un gran spettacolo questo, dovresti vederlo.
 
Almeno una volta nella vita.
 
 
 
CB 2002 
 
 
 
The Rocks
http://www.rocksvillage.com/rocks/index.html
 
Il belvedere dall’Harbour Bridge
http://www.pylonlookout.com.au
 
Opera House
http://www.sydneyoperahouse.com
 
Il ristorante bavarese dei Rocks
http://www.lowenbrau.com.au/rest.htm
 
Darling Harbour
http://www.darlingharbour.com.au/flash.asp
 
Royal Botanical Gardens
http://www.rbgsyd.gov.au/html/Discover.html
 
Librerie Dymocks
http://www.dymocks.com.au/
 
Manly
http://www.manlyweb.com.au/information/about_area/general.shtm
 
Un bella foto panoramica dal Manly Scenic Walkway. A sinistra Manly a destra, in secondo piano, le torri del centro di Sydney.
http://toyopc.phys.unsw.edu.au/toyozumi/Life_in_Australia/Manly/Manly025.jpg
 


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